Sfuocare la linea tra disegno e pittura.
Abbandonare la pittura come rappresentazione, citando la linea o macchiando ogni segno con la sua propria storia, come soggetto a sé.
Ricollegare l’opera pittorica a grandi matrici: Masson, Klee, Pollock, De Kooning, Michaux, a seconda se pitture, acquerelli, disegni. Decifrarne il senso profondo come una sorta di “labirinto dell’alfabeto” (o dell’inconscio).
Riallacciarsi a una preziosa indicazione di Roland Barthes, quando, commentando la sua estetica del frammento, cita la musica di Schumann come esempio supremo di chi ha compreso e praticato tale dimensione creativa, l’intermezzo.
Avvertire il brusio della conversazione con sé. Lussuoso e flessuoso brusìo di colori vividi che scompiglia e aggroviglia tutto.
Ed è subito segno. Ecco infatti il gioco elegante di dipingere per dipingere, come per certe scuole zen il sedersi non è per accedere all'assoluto, ma intanto è solo per sedersi. Dunque, nello spreco e nello sperpero di energie ludiche e senza secondi fini, qui si irradia l'estrema libertà e gioiosità.
Tessere, disseminare, coagulare trame, intrecci, gomitoli, reticoli, grovigli, matasse di colori puri e luminosi. I tratti si espandono, si concentrano. Come colpiti da brividi, storditi da microscosse che li animano, li torcono, li assottigliano e addensano. Ecco, questo e molto altro potrete vedere alla mostra di Stefano Sabo.