Stefano Sabo interpreta la superficie dipinta come una parete su cui imprime una sorta di griglia, alla quale si rapporta poi lo spazio totale dell’opera. Il segno è leggero e percorre la pagina con un accenno labirintico, dove la materia pittorica (lo smalto o l’acquerello) varia di intensità cromatica e di densità di segno in una serie di sovrapposizioni, che alludono a una profondità scandita da molteplici piani. L’efficacia del costrutto è più incisiva laddove il colore, disteso in una consistenza fluida, accarezza il foglio, stendendosi in corsie che catturano il bianco di fondo facendolo entrare di peso nell’economia generale della composizione. Quando Stefano Sabo ricorre allo smalto, il segno tende a farsi più marcato, quasi un tratto dinamico di attraversamento dello spazio, realizzato con una pennellata che guida e domina tutti gli altri fraseggi e tracce incise. L’autore dà l’idea di avere in mente gli schemi dei microprocessori, quei circuiti che distribuiscono gli impulsi agli strumenti elettronici e telematici; ne stilizza i percorsi facendo loro assumere a tratti qualche allusione vagamente figurale. Talora i colori, distesi su un fondo prodotto da lievi velature, si espongono alla luce con un dato costitutivo di trasparenza che rimanda a un “oltre”. Determinate opere presentano rilievi ideogrammatici che vengono proposti a uno stadio precedente a quello definitivo, come se stessero per materializzarsi in immagini riconoscibili. E la pittura vive come su una scrittura automatica, che si afferma sulla carta o sulla superficie pittorica in grande evidenza, avendo ogni volta una ragione propria per ridursi al monocromo oppure per ampliare la gamma di colori a una gran varietà di toni.
Enzo Santese aprile 2010